16 maggio 2018

Ti odio poi ti amo poi ti odio poi ti amo…

L’incastro “perfetto” tra il narcisismo patologico e la dipendenza affettiva

di Claudia Dacquino

Nel contesto sociale e culturale odierno si sente spesso parlare di relazioni narcisistiche e conflittuali. Nell’epoca dell’autocelebrazione attraverso i social l’atteggiamento narcisista sembra essere rinforzato e giustificato ad ogni livello. In questo spazio liquido in cui si ha l’illusione che ognuno possa raggiungere quello che vuole, ci si percepisce come soggetti in diritto di cambiare ruolo in base al desiderio, adattando lo spazio intorno a sé, manipolandolo, nella fantasia onnipotente che l’altro non esista, o esista al proprio servizio.

La contemporaneità esaspera quindi il narcisismo1, sostenendo una proiezione di sé irrealistica e ideale, che si riflette inevitabilmente anche nelle relazioni. Ciò diventa ancora più evidente quando la personalità narcisistica, che incarna grandiosità e bisogno di ammirazione, incontra la personalità dipendente, per la quale la relazione è vissuta come condizione unica, indispensabile e necessaria per la propria esistenza, possedendo scarsa stima di sé e cercando nell’altro conferma riflessa del proprio valore.

La dipendenza affettiva2 , come altre nuove forme di dipendenza (shopping, gioco, lavoro, internet, ecc.), è anch’essa una condizione psicologica caratteristica dei nostri tempi e della nostra società. Il poter “contare” su una relazione amorosa rappresenta un’importante fonte di sicurezza sostitutiva rispetto alla crisi dei valori, all’instabilità e alla precarietà delle istituzioni relazionali tradizionali. La società moderna, infatti, è caratterizzata da instabilità e incostanza dei legami affettivi, facilitando tipologie di attaccamento ambivalenti che portano a relazioni di tipo conflittuale3. Ciò fa scaturire nelle persone il bisogno di vivere una relazione simbiotica, con l’illusione che l’altro possa proteggerci e prendersi cura di noi.

Il piano sociale e il piano individuale si fondono pertanto nella ricerca del partner “ideale”, creando legami disfunzionali, di cui i partner non possono fare a meno. Questa collusione di coppia4 diventa indispensabile, seppur generi sofferenza e blocchi le potenzialità di crescita individuali. Ciò avviene perché questo tipo di legami appagano bisogni profondi e inconsci in un’eterna coazione a ripetere, in cui le esperienze sperimentate nell’infanzia si perpetuano nel presente attraverso il legame sentimentale. 

La collusione amorosa tra l’individuo narcisista e quello con dipendenza affettiva, infatti, è caratterizzata da una scarsa definizione del Sé e della propria identità da parte di entrambi i partner. Il rapporto di coppia diventa funzionale alla ricerca di una conferma del proprio valore e della propria autostima. Da una parte il narcisista cerca un compagno che lo ammiri e che gli rimandi un’immagine di Sé idealizzata. Dall’altra parte il dipendente affettivo ha scarsa stima di sé e proietta sull’altro la conferma riflessa del proprio valore.

Tuttavia per il narcisista l’altro non esiste come essere autonomo, dotato di iniziative e volontà proprie, ma viene concepito soltanto solo come prolungamento del sé. Il dipendente che non si stima affatto e si disprezza, vive il legame come funzionale alla propria carenza di autostima, credendo di poter brillare di luce riflessa in virtù della relazione instaurata con un partner brillante e apparentemente sicuro di sé.

Questo incastro è disfunzionale in quanto nessuno dei due partner ha la possibilità di maturare, di affrontare il problema più profondo che riguarda la modalità con cui si sono costruite le radici della propria identità. Entrambi i partner infatti mancano di autostima: il narcisista la ricerca nelle conferme derivanti dall’altro, il dipendente negando a se stesso il bisogno di sviluppare il proprio Sé in modo autonomo, senza considerarsi un’appendice del compagno. I due partner co-costruiscono una coppia basata su una totale assenza di interesse per l’altro e di valore dell’altro5. Ognuno dei due, con modalità diametralmente opposte, è concentrato su di sé, rimanendo intrappolato fin quando non raggiunge un malessere tale che lo spinge ad esplorare e comprendere le radici psicologiche che lo porta a costruire relazioni di questo tipo.

Come uscire da questo incastro “perfetto”?

Per uscire dall’incastro disfunzionale come prima cosa occorre imparare a conoscersi: conoscere e riconoscere i propri bisogni, le proprie priorità, i propri interessi, le proprie inclinazioni e i propri valori di vita, indipendentemente dalla presenza dell’altro. Ciò significa anche imparare a dire “NO”, definire i propri “confini”. Bisogna inoltre imparare a costruire un solido rapporto con noi stessi, sviluppando un senso di fiducia e di autoefficacia personale, cominciando ad agire piccoli e graduali comportamenti diversi dal solito che ci portano ad una maggiore capacità di autoaffermazione ed autodeterminazione: fare qualcosa da soli, imparare ad esprimere le proprie preferenze e il proprio disaccordo, imparare gradualmente a tollerare il senso di paura dell’abbandono. Occorre altresì imparare a dare meno importanza al giudizio degli altri, a diventare importanti per noi stessi, mettendoci nella condizione di non dover dipendere dall’altro per la sopravvivenza, assumendoci le nostre responsabilità rinunciando alla condizione di vittima delle circostanze.

Per uscirne bisogna quindi entrare in contatto con le proprie emozioni e sensazioni più profonde, esplorando e comprendendo le radici psicologiche che ci portano a costruire relazioni non appaganti e a volte distruttive.

1 Gabbard G.O. (1995). Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore
2 Norwood, R., Maraini, D., & Bertoni, E. (1989). Donne che amano troppo. Feltrinelli
3 Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Raffaello Cortina Editore, Milano
4 Dicks, H. V. (1967). Marital Tensions. Trad. it. Tensioni coniugali. Studi clinici per una teoria psicologica dell’interazione. Roma, Borla 1992
5 Guerreschi, C. (2011). La dipendenza affettiva. Ma si può morire anche d’amore? FrancoAngeli

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